La psicologia dei negazionismi: perché i fatti non bastano

Negazionismi, complottismi e altri fenomeni simili non sono diffusi soltanto tra le fasce di popolazione meno scolarizzate. Anzi, spesso sono le persone con maggior grado di scolarizzazione a opporsi a verità scientifiche validate come l'utilità dei vaccini e la responsabilità umana nel riscaldamento globale. Basti pensare ai premi Nobel che hanno sostenuto teorie antiscientifiche, come l'inesistenza dell'AIDS o la memoria dell'acqua. Come mai?

Bisogna sempre tenere in conto i fattori psicologici. Uno stesso messaggio viene accolto diversamente in base al background culturale, alle esperienze individuali, ai valori del singolo, alla personalità, alle fragilità psicologiche e ai bias cognitivi. Fattori che condividiamo e che pesano sul nostro modo di dare peso a certi dati scientifici piuttosto che altri. Ad esempio, gli alcolici sono dannosi anche in dosi moderate, ma non hanno portato a un aumento importante nel numero di astemi tra chi ne è consapevole: l'alcol piace, è sinonimo di rilassatezza e convivialità, per cui ne sottostimiamo i difetti e ne sovrastimiamo i pregi per continuare a berlo.

Possiamo individuare due elementi fondamentali che spingono le persone a negare i fatti. Il primo è l'approvazione: l'essere umano è un animale sociale, che ha come necessità quella di sentirsi incluso in un gruppo. Il ruolo che abbiamo all'interno di una comunità, insieme alla consapevolezza delle nostre caratteristiche, è uno dei due elementi che compone la nostra identità. Può essere più o meno importante a seconda della persona, ma guida sempre parte delle nostre scelte perché in qualche misura ci definisce. Se un fatto va in contrasto con quanto sostenuto all'interno del nostro gruppo, con quanto il nostro gruppo approverebbe, allora possiamo arrivare a opporci a esso.

In un esperimento del 1956, lo psicologo polacco Solomon Asch sottopose un gruppo di volontari a una serie di domande. Ogni volontario veniva posto in una stanza insieme a un gruppo di sette complici. Il volontario e sei dei complici dovevano indicare all'ottava persona quali tra le linee proposte fossero della stessa lunghezza. Dopo una serie di risposte corrette, i complici iniziavano a dare risposte palesemente errate. La domanda dello studio era: come si sarebbero comportate le persone ignare? L'80% di esse si uniformò al gruppo, dando la risposta sbagliata almeno una volta, mentre oltre il 60% lo fece almeno due volte. Da studi successivi abbiamo compreso che quanto più il gruppo è grande, tanto più il fatto sociale (ciò che viene imposto come vero dalla comunità) ha potere coercitivo sul singolo, spingendolo a credere più a quanto sostiene il gruppo che a quanto risulta evidente dai fatti.

Un altro meccanismo che spinge qualcuno a negare un'evidenza è un fenomeno chiamato diniego psicologico. Tutti, di fronte a una minaccia, proviamo paura. In alcune persone, questa è così forte da ergere un muro nei confronti di certi fatti, che quindi vengono negati e contrastati, attraverso sei principali argomenti retorici:

  • il rifiuto delle argomentazioni scientifiche;
  • la messa in discussione dell'integrità degli scienziati;
  • l'ingigantimento dei disaccordi esistenti tra questi ultimi;
  • l'esagerazione degli effetti collaterali;
  • l'appello alla libertà personale;
  • l'esaltazione delle convinzioni personali a scapito dei dati scientifici.

Per molto tempo, e talvolta ancora oggi, ha dominato un metodo di comunicazione della scienza denominato "deficit model", in cui gli "esperti" (scienziati, tecnici eccetera) devono colmare le lacune del "popolo". Botti di conoscenza che devono riempire bicchieri vuoti. Secondo questo modello, per ridurre la disinformazione sarebbe sufficiente fornire dati e fatti. Tuttavia, come abbiamo visto, il deficit model si fonda su presupposti errati. Spingere la conoscenza, soprattutto se con toni assoluti e pretestuosi, è spesso inutile e talvolta deleterio. D'altra parte, non è corretto parlare de "i negazionisti", in quanto credere in un complotto non implica essere convinti che siano tutti validi.

La lotta per l'informazione non è una guerra tra intelligenti e stupidi, tra esperti e ignoranti, ma deve andare molto più in profondità, a cogliere i bisogni del singolo. 



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